Figure è il primo lavoro solista del cantautore torinese Deian Martinelli, in arte semplicemente Deian, un album all’insegna di un eclettismo che coinvolge generi e arrangiamenti, e che spazia dalla ballata pianistica alla pop song fulminea, passando per la giustapposizione di ambienti e armonie, fino al collage sonoro. I testi, apparentemente astratti e intrinsecamente
simbolisti, osservano la realtà interiore da un punto di vista esteriore. Ne abbiamo parlato con lui.

QUANTO TI SENTI HYPFI? CIOÈ, FAI MUSICA TRISTE MA SEI UNA PERSONA FELICE?
Difficile considerare la felicità uno status ben definito, da ottenere e mantenere. Comunque nel momento in cui scrivo non mi sento felice. Il problema vero è quando manca l’impegno e la motivazione per tendere a qualcosa che faccia bene. Del resto, non sono ancora riuscito a farmi una ragione del fatto che abito questo corpo che devo costantemente nutrire e preservare. Insomma, ce n’è di strada da fare… perché poi ci debba essere una strada da fare e dove vada forse non ha senso domandarselo. La musica riveste il ruolo di una valvola attraverso cui incanalare tutto ciò che è riconducibile a tristezza e affini, e trasmutarlo in artefatti, canzoni nel mio caso, che nobilitino quei sentimenti e gli diano un luogo e uno spazio in cui manifestarsi senza far danni.

QUAL È LA CANZONE PIÙ TRISTE DEL TUO ALBUM, FIGURE, E PERCHÉ?
È una bella sfida, ma l’ambito premio credo spetti a Robot. È un pezzo che racconta in prima persona il vagare di un uomo così disperato da mettere in dubbio la propria stessa natura umana, attraverso dei flash non troppo consequenziali, come i pensieri di una persona in stato confusionale. Fatico a immaginare qualcosa di più triste. E poi la musica è un alternarsi di atmosfere d’oltralpe, con una specie di similfisarmonica, e irruzioni drammatiche di un’orchestra, rigorosamente e orgogliosamente ricreata in laboratorio anch’essa. D’altra parte, se una simulazione è verosimile, resta poco margine per riconoscerne la vera natura di simulazione. Philip Dick docet.

E QUAL È INVECE LA CANZONE PIÙ FELICE DELL’ALBUM?
Direi Deltaplani, che prospetta una via di fuga dal mondo, un arcobaleno sognato da un vecchio bambino. Oddio, a ben vedere è intrisa di una malinconia tipica del classico rimpianto del passato che non tornerà. Ma finché dura, il sogno è certamente un bel sogno da sognare. Musicalmente la più allegra è senza dubbio Figure strane: infatti parla dell’alienazione e degli schermi cui siamo soggiogati, dal punto di vista di un misantropo che non vuole più uscire di casa ma vi è costretto dalle esigenze fisiologiche del suo cane.

IN CHE MODO LA TUA MUSICA POTREBBE RENDERE FELICE CHI L’ASCOLTA?
Nell’unico modo in cui lo può fare: suscitando delle emozioni. Il bello della rappresentazione in generale è che qualsiasi emozione riprodotta è benefica, che sia gioia, ma anche paura, tristezza, violenza, schifo. Naturalmente ci va l’ingegno e l’impegno per architettare una struttura che possa veicolare quell’emozione, con una qualche sua coerenza interna che ne incentivi la fruizione. In parole povere, devi fare in modo che la tua opera sia bella. Io spero di esserci riuscito. Altrimenti mi accontento di essermi impegnato a fondo in questa cosa e di essere contento di ciò che ho fatto.

QUALI SONO LE TUE TRE CANZONI TRISTI PREFERITE DI SEMPRE?
Late Night di Syd Barrett, Quella cosa in Lombardia di Jannacci e Despacito, non so di chi.

Ecco Figure:

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