Invito per colazione è l’album d’esordio di Simone Matteuzzi, cantautore e musicista della nebbiosa provincia di Milano. Un lavoro che si pone timidamente l’obiettivo di spogliare le pluralità e le contraddizioni della figura di un giovane artista nell’era delle pose virtuali. L’invito del titolo è una messa in scena di mondanità in un giardino evaporato dallo spazio e dal tempo, in cui lo zibaldone di poetica cantautorale, il nu jazz, l’ironia dei testi, la sperimentazione elettronica e la ricerca tradizionale si incontrano per restituire all’ascoltatore luci e ombre del rapporto con se stessi, gli altri e la propria alterità. Ne abbiamo parlato con lui.

QUANTO TI SENTI HYPFI? CIOÈ, FAI MUSICA TRISTE MA SEI UNA PERSONA FELICE?
Non credo di poter definire la mia musica “triste”, tantomeno felice sia chiaro, penso che il sentimento umano sia teatro della pluralità più vertiginosa, tanto da scoprirmi inadatto quando mi si chiede di patteggiare per tristezza o felicità. Penso di essere una persona sballottata, più o meno soavemente, dal frastuono del quotidiano tanto da non rendermi conto se io sia felice o triste. Posso dire di provare sentimenti molto forti, misteriosi, talvolta di natura indefinita. Proprio per questo mi incuriosisco e mi metto a scavarci dentro, per cercare di rubare loro qualche atomo di mistero, penso che questo sia il cuore del mio slancio creativo. Quindi direi: faccio musica curiosa e sono una persona curiosa.

QUAL È LA CANZONE PIÙ TRISTE DEL TUO ALBUM, INVITO PER COLAZIONE, E PERCHÉ?
Se dovessi proprio spintonarne avanti una, sarebbe Riposo. La definirei malmostosa, pigra, come appena svegliata da un pisolino pomeridiano con un brutto mal di testa, hai presente quella sensazione orribile? Non a caso parla proprio di quella condizione, a metà tra sogno agitato e realtà, dove le immagini si confondono, dove ricordi e angosce dell’oggi si prendono a braccetto per farti venire un bel mal di testa. La soluzione, come suggerisce la coda del brano a mo di mantra, penso sia farsi una bella doccia calda.

E QUAL È INVECE LA CANZONE PIÙ FELICE DELL’ALBUM?
Direi senza dubbio Affinché il mare. Parla di un’infanzia trascorsa giocando a nascondino sulla spiaggia, di candore, di trepida e vispa attesa del futuro, un futuro carico di sogni e di talenti che fioriranno. L’ho scritta pensando al punto di vista del mio migliore amico, cresciuto lungo le spiagge della Sardegna. Sono molto bravo a farmi suggestionare dal fascino maudit del tedio, ma anche bravissimo a commuovermi profondamente davanti alla semplicità delle cose belle, sincere, autentiche.

IN CHE MODO LA TUA MUSICA POTREBBE RENDERE FELICE CHI L’ASCOLTA?
Non avrei la presunzione di rendere felice nessuno. Piuttosto, sento che una certa fetta di miei coetanei potrebbe sentirsi coinvolta dalla mia musica e dalle mie parole. Nella mia scrittura pratico molto l’esorcismo di tutti gli arzigogoli ipocondriaci che mi sguazzano in testa e penso che, nonostante un’adolescenza con un che di egomaniaco mi abbia suggerito altro, molti ci si possano rivedere. Alla fine penso che le turbe che turbano tutti siano tutte amiche tra di loro, solo che noi spesso non lo sappiamo e allora crediamo di essere soli con il nostro dolore, e questo ci inorgoglisce quasi. Penso che leggendo le parole dell’altro invece potremmo incontrarci, sentirci vicini, sentire le nostre paure vicine, e dunque essere amici. Penso che tutta la musica serva ad incontrarsi, a umanizzarsi, quindi penso possa farlo anche la mia.

QUALI SONO LE TUE TRE CANZONI TRISTI PREFERITE DI SEMPRE?
Ardua domanda. Direi: La domenica delle salme di De André, Son Sciopaa di Enzo Jannacci e Normalmente di Joe Barbieri. Naturalmente sono le prime tre che mi sono venute in mente, tra cinque minuti potrei mutare la risposta completamente scomodando Stevie Wonder, Lucio Dalla o gli Area. Le tre canzoni che ho citato esprimono tre tristezze completamente diverse, la prima ideale, storica, direi quasi politica. La seconda molto teneramente e ironicamente umana, significa “Sono scoppiato” in dialetto milanese (frase preferita: “…hai presente un canotto mordicchiato da un dobermann?”). La terza canta la tristezza della perdita di un amore così grande da non poter essere definito nei canoni di un amore erotico, forse infatti penso canti un altro tipo di amore, di un’altra dimensione. Tre tristezze molto diverse quindi, ma ripensandoci bene è come se coincidessero in uno zenit di sensibilità e nuda sincerità umana.

Ecco Invito per colazione:

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