A 7 anni da Equorea, tornano ad affacciarsi sulle scene i lombardi Di noi stessi e altri mondi, con la loro proposta musicale che oscilla tra gli arpeggi di chitarra e i riff fragorosi del post rock e uno spoken word caratterizzato da un forte approccio poetico. Tutto lascia traccia è il titolo del loro nuovo album, un percorso a ritroso in una storia di provincia, attraverso ricordi spesso dolorosi, personali e collettivi. Ne abbiamo parlato con loro.
QUANTO VI SENTITE HYPFI? CIOÈ, FATE MUSICA TRISTE MA SIETE PERSONE FELICI?
Non giriamoci attorno: le vicende personali e collettive sono difficili. Più difficili di quanto siano state in passato. Pensiamo a quello che ha vissuto la generazione degli attuali trentenni (la nostra) in termini di di stabilità, riconoscimento sociale, situazione lavorativa, il mondo che nel frattempo esplodeva e noi che eravamo negli anni in cui dovevamo determinarci, strutturarci. E ora la società si aspetta pure che, in tutto questo, contribuiamo a risolvere il problema della crisi demografica! Per di più, noi veniamo pure dalla provincia dell’impero, fate voi… Quindi sì, facciamo musica triste e spesso ci sentiamo anche noi incredibilmente tristi. Però fare musica ci rende assolutamente felici. Vogliamo dire: fare questo tipo di musica, che affronta questi temi e li attraversa, che cerca di collettivizzarli in un rituale che non è solo per noi, celebrato nella nostra cameretta, ma che può risultare un momento di contatto e vicinanza con qualcuno in cui vibrano le medesime corde. Ecco, questo ci entusiasma. La disperazione non necessariamente risulta incompatibile con una forma sincera di gioia.
QUAL È LA CANZONE PIÙ TRISTE DEL VOSTRO ALBUM, TUTTO LASCIA TRACCIA, E PERCHÉ?
Domanda difficile, visto che tutte le canzoni parlano, tirando le somme, di momenti difficili, sia dal punto di vista individuale che generazionale. Il sentirsi soli e incompresi nel posto da cui si proviene (Tutto lascia traccia), i traumi dell’infanzia (Aerei di carta), le perdite nell’età adulta (Il giorno dopo), l’isolamento pandemico della strumentale Lungo inverno, le tragedie del mondo, tra guerre e cambiamento climatico (Un mondo che brucia); difficile mettere questi temi in una classifica, tuttavia, l’approccio nei loro confronti risulta diverso. Ad esempio, entrambe le canzoni che parlano di temi più personali, Tutto lascia traccia e Il giorno dopo, in realtà, per quanto disperate, terminano con situazioni di gioia o quantomeno di risolutezza, frutto forse di un nostro percorso personale. Quelle “generazionali”, invece, sembrano non avere scampo. Il mondo, in effetti, da quel 2001 in cui si collocano le immagini che aprono Aerei di carta è forse solo che peggiorato e noi non siamo più bambini inconsapevoli, ma adulti che, come in Un mondo che brucia, sentono un perenne senso di affogamento nell’essere continuamente sollecitati dagli eventi esterni.
E QUAL È INVECE LA CANZONE PIÙ FELICE DELL’ALBUM?
Senza dubbio Ultima chiamata e, forse, la sua coda, Quel viaggiatore, ancora di più. Infatti, questo è un pezzo (consideriamolo unico) che parla di una presa di consapevolezza, di un cambio di rotta, ed è per questo che abbiamo deciso di metterlo alla fine del disco. È come aprire gli occhi, rendersi conto che per tanti anni – tutta la vita – si è avuto un approccio alle cose che è stato quello necessario a sopravvivere all’agone del mondo, ma che, al giro di boa, quando alcune cose hanno iniziato a essere risolte o forse semplicemente risultano lontane nel tempo, può essere abbandonato o quantomeno riformulato. E si inizia a desiderare di essere altro, altrove. Rispetto al nostro passato lavoro, Equorea, del 2018, l’altrove in questo album non rappresenta più il luogo dove fuggire dalle angosce, bensì un nuovo capitolo della vita.
IN CHE MODO LA VOSTRA MUSICA POTREBBE RENDERE FELICE CHI L’ASCOLTA?
Forse abbiamo già risposto. Siamo stati un po’ prolissi… però, pur in prospettive ovviamente diverse (siamo persone, comunque, con vissuti differenti e sicuramente i temi scelti da Marco possono avere significati diversi per gli altri membri della band), queste canzoni hanno rappresentato per chi le ha scritte un modo per non cedere – ridiciamo quella parola – alla disperazione. A noi sono servite, così come sono servite altre cose eh (gli psicologi, ad esempio, i viaggi, le passeggiate in montagna…). Crediamo che questa cosa emerga. Che dietro a tutti quegli eventi che vengono raccontati non c’è (più) alcuna rabbia. Che nel momento in cui scrivevamo e suonavamo quelle canzoni, noi stavamo combattendo.
QUALI SONO LE VOSTRE TRE CANZONI TRISTI PREFERITE DI SEMPRE?
Su questo abbiamo mezzo litigato. Abbiamo ascolti molto diversi, spesso. Mattia e Alessandro (bisogna dichiarare i colpevoli!) hanno proposto Frankenstein di Marco Masini, per esempio. Francesco propone Quello che non c’è dei Death of Anna Karina. Marco non sa: gliene vengono in mente al tempo stesso troppe e nessuna e vuole fare di tutto per non citare Luigi Tenco.
Ecco Tutto lascia traccia:
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